Le Sezioni Unite della Cassazione e la nullità canonica

Commento breve alla sentenza n. 16379/2014

Ha fatto notizia la recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione secondo le quali la sentenza dei tribunali ecclesiastici che dichiara la nullità del matrimonio concordatario non può avere efficacia nello Stato italiano se i coniugi abbiano, nel frattempo, convissuto, come coniugi, per almeno tre anni.

Secondo la Suprema Corte, la convivenza, per un tale periodo, rende l’atto matrimoniale inattaccabile dalla nullità canonica, in quanto ‘protetto’ da norme di ordine pubblico, inerenti il favor dello Stato verso la validità del matrimonio.

L'ordine pubblico, si deve precisare, è, poi, quell'insieme di norme fondamentali dell'ordinamento giuridico riguardante i principi etici e politici la cui osservanza ed attuazione è ritenuta indispensabile per l'esistenza dell’ordinamento stesso.

Secondo le Sezioni Unite della Cassazione (che, chiamata a dirimere un contrasto interpretativo tra le sezioni semplici, distingue tra matrimonio-atto e matrimonio-rapporto), la ‘convivenza’ (che, in caso di matrimonio, si realizzerebbe nel cosiddetto matrimonio-rapporto), sotto questo profilo, avrebbe un autonomo rilievo costituzionale, oggetto di specifica tutela. Non solo nel matrimonio, ma anche in altri tipi di rapporto, quali le unioni civili tra persone omosessuali, che la Suprema Corte, citando la Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, espressamente menziona.

Detto così, l’impegno dello Stato per la difesa del matrimonio parrebbe encomiabile e, sotto certi aspetti, anche sorprendente, se si considera che, sempre secondo la Cassazione, strenuamente difesa la validità del vincolo, poi ciascuno dei coniugi può legittimamente mandarlo a monte, con ampie garanzie di impunità.

Ciascun coniuge, infatti, può sempre chiedere la separazione, in barba alle solenni promesse matrimoniali, laddove – secondo la Cassazione - sopraggiunga anche una semplice disaffezione verso l’altro coniuge, avulsa da cause oggettive che rendano la convivenza intollerabile, magari dopo venti o trenta anni di convivenza ed anche se dal matrimonio siano nati figli (magari quattro o cinque figli, come è accaduto di vedere).

Sul piano pratico, quindi, da un lato, per lo Stato, una volta che ci si sia sposati, i coniugi che abbiano convissuto per almeno tre anni devono rimanere soggetti al vincolo matrimoniale, anche se il loro matrimonio era canonicamente nullo; d’altra parte, tuttavia, il matrimonio la cui validità risulta così strenuamente difesa, alla stregua del principio di ordine pubblico, può essere tranquillamente mandato in malora, in qualunque momento, da uno dei coniugi, anche per motivi futili, mentre sarebbe lecito aspettarsi da uno Stato caratterizzato da un così stringente favor matrimonii l’atteggiamento esattamente opposto e, così, un ben altro rigore giudiziario nel verificare i motivi della separazione, la loro oggettività e superabilità, ben al di là degli umori e delle voglie contingenti dei coniugi.

Questo, invece, non conta nulla, perché quello che alle Sezioni Unite preme affermare è innanzitutto la distanza tra Stato e Chiesa. E poi il valore della convivenza (sia nel matrimonio che al di fuori di esso), protratta per almeno tre anni, alla quale viene riconosciuto addirittura un valore costituzionale.

Mentre il matrimonio, nei suoi profili ed effetti civili, non solo è depotenziato, ma addirittura costruito dalla giurisprudenza della Cassazione come una specie di gabbia infernale nella quale il coniuge tradito ed abbandonato può essere – civilmente – annichilito e schiacciato, la strada per il riconoscimento delle unioni civili è, al contrario, aperta, apertissima.

Se all’origine della convivenza c’è un matrimonio, l’unico modo per uscirne è la separazione ed il divorzio (con le conseguenze anche economiche che ciò comporta), nei quali l’affidamento del coniuge incolpevole sulla indissolubilità del vincolo non conta nulla, come non conta nulla il fatto di avere, uno dei coniugi, confidato nell’impegno dell’altro a superare le inevitabili difficoltà e crisi di coppia, né l’avere generato, insieme, figli. Addirittura, nel caso dei padri, spesso essi devono tollerare, impotenti, che i figli siano coinvolti nelle nuove relazioni affettive della madre, perché ciò corrisponde ad un loro incomprimibile diritto di ‘libertà’.

In questo quadro, gli unici ‘vantaggi’ del matrimonio paiono oramai essere costituiti dai diritti successori tra coniugi e dalla reversibilità della pensione. Per il resto, il matrimonio è un vero azzardo, un atto che comporta rischi altissimi e, sotto tutti gli altri profili, sostanzialmente inutile. La stessa struttura del matrimonio, nei suoi aspetti civilistici, è ormai assimilata a quelle delle relazioni di fatto, nelle quali la relazione di coppia perdura fino a che c’è la volontà dei partners di mantenerla. Così era nel diritto romano classico, in epoca pre-cristiana.

Ma, a parte queste considerazioni, vi è una perplessità di fondo, di carattere squisitamente giuridico, sul fondamento del principio introdotto dalla Suprema Corte, sui tre anni di convivenza (estrapolati dal regime delle adozioni) riportati, rispetto al matrimonio-atto, al principio di ordine pubblico.

Se, infatti, la convivenza protratta per almeno tre anni ‘sana’ le nullità del matrimonio-atto, e se questo costituisce un principio di ‘ordine-pubblico’, perché questo limite non opera per le cause civili di nullità del matrimonio, quali quelle previste all’art. 122 del codice civile? In esse, per la ‘sanatoria’ delle nullità è richiesto un solo anno di convivenza che, però, decorre dal momento in cui il vizio è stato scoperto. E questo può avvenire anche a distanza di tempo dalla celebrazione del matrimonio. P. es., se uno dei coniugi scopre l’omosessualità dell’altro (che prima gli era stata nascosta), oppure viene a saperne i gravi precedenti penali, dopo cinque anni di matrimonio, posto che la Cassazione ritiene tale motivo come valida causa di nullità del matrimonio, alla stregua dell’art. 122 c.c. tale nullità sarebbe sanata dal decorso di un anno di convivenza dopo la scoperta del vizio, quindi, nel nostro caso, dopo sei anni di convivenza, cioè di matrimonio-rapporto.

E allora, ci si chiede, perché in questo caso non opera il limite dell’ordine pubblico? Oppure, forse più realisticamente, ci si può chiedere se davvero nel nostro ordinamento esista quel principio di ordine pubblico affermato dalle Sezioni Unite, per cui la convivenza triennale ha efficacia preclusiva della delibabilità delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, o se questo nuovo limite ‘inventato’ dalle Sezioni Unite non abbia una funzione meramente pretestuosa e strumentale.

La decisione della Cassazione pare, infatti, sotterraneamente orientata, oltre che ad aumentare la distanza tra lo Stato e la Chiesa, a dispetto delle vigenti norme (da ultimo gli Accordi di Palazzo Madama del 1984), a secondi fini, connessi al depotenziamento del matrimonio (la cui disciplina civilistica è oramai illogica ed incomprensibile) ed alla progressiva valorizzazione della convivenza quale vero presupposto dei diritti e dei doveri di coppia.

Il tutto con un percorso logico che appare torbido e paradossale, e contribuisce al progressivo allontanamento del linguaggio giuridico dalla realtà delle cose, dalla limpida definizione della famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio. Un istituto che, per i Padri Fondatori, il legislatore (e tanto meno i giudici) non possono inventarsi, ma che esiste in natura, e solo deve essere riconosciuto.

Piacenza, 27 luglio 2014.

Livio Podrecca